Ciascun individuo chiede ogni giorno, consapevole o meno, il riconoscimento della legittimità di essere umano e del desiderio di amare ed essere amato.
Anche se molti di noi sono dotati di una scarsa autostima (tanto da accettare che gli altri ci facciano del male nella stessa misura in cui ce lo facciamo noi e mai oltre) e anche se non abbiamo ancora amore dentro di noi tanto da innescare intorno a noi circoli virtuosi, gli obiettivi di fondo rimangono sempre e solo questi.
Nei tempi virtuali che viviamo, pieni di opportunità di fatto inconsistenti, prevalgono ogni giorno (e sempre di più) solitudine e miseria affettiva, cose che stanno producendo (in un contesto già poco evoluto) disintegrazione dei legami comunitari e dislocazione dei legami sociali.
In un contesto simile così degradato, la soggettivazione può divenire, dal punto di vista psicologico, una buona via d’uscita.
Il punto dal quale tutti partiamo è il soffrire senza motivo, cosa che amplifica il nostro senso di vuoto, smarrimento, solitudine.
Il bisogno di uscire da questa situazione, legato a quello di evoluzione insito in ciascuno di noi, ci consente di chiedere l’aiuto psicologico giusto; in alternativa si possono leggere libri che ci possano aiutare a fare dei piccoli passi verso questa direzione.
Il passo immediatamente successivo è quello di esprimere ciò che si pensa e si sta provando: essere incarnati, del resto, significa essere presenti nel proprio corpo, così come nelle proprie percezioni e sensazioni.
Il terzo obiettivo della soggettivazione è quello di parlare a proprio nome: la libertà di parola, infatti, ci rende testimoni coscienti e consapevoli della nostra storia personale.
Parlare in primis a se stessi o a qualcuno del nostro vissuto e delle nostre eventuali sofferenze ci permette di calarci con più precisione negli eventi che sono accaduti.
Il quarto punto è quello di divenire consapevoli che esistiamo attraverso tutte le nostre esperienze, anche quando sono negative. Se ne parliamo con un terapeuta, per esempio, costui ci farà capire proprio la nostra unicità e specificità nel vivere le nostre esperienze, facendoci capire la nostra individualità e il nostro potenziale d’umanità.
Il quinto punto è quello del “mi sento, penso, parlo, desidero, sono” alias il riconoscimento definitiva della nostra individualità, che ci fa capire che la nostra storia dipende solo ed esclusivamente da noi.
Diveniamo responsabili, infatti, delle nostre percezioni, della nostra storia, dei nostri desideri, dei nostri pensieri, delle nostre parole e dei nostri modi di agire. Ciò ci permetterà di stare meglio con noi stessi e, come diretta conseguenza, tutti i nostri rapporti diverranno più autentici. L’alleanza col terapeuta, in questo caso, sarà un esempio di come in realtà i rapporti possono funzionare quando si basano sul rispetto e sulla condivisione, cosa che ci convincerà a impostare i futuri rapporti in questo modo. Questo può accadere a prescindere dalle relazioni sofferte del passato. In altre parole, il ricordo di questa alleanza diverrà un ricordo e uno strumento prezioso per riuscire a instaurare nuovi rapporti affettivi.
L’amore ci sembra impossibile, del resto, solo quando siamo costantemente insicuri e sfiduciati, ovvero quando non abbiamo fiducia in noi stessi e non ci fidiamo degli altri.
Nessuno è lì fuori per salvarci: siamo noi che possiamo impostare i rapporti orientandoli alla fiducia e al rispetto, con positività e ottimismo. Per fare questo bisogna tenere a bada la paura, un mostro in agguato dentro ciascuno di noi, che ha spesso il sopravvento e ci fa prendere così tante precauzioni da non poterci più aprire, lasciarci andare all’amore e permettere di essere amati.
L’amore, in altre parole, parte sempre da dentro di noi, dalla soggettivazione: se non abbiamo amore ma solo paura, cosa scambieremo con chi ci starà vicino?
La paura è il vero contrario dell’amore.
Saper amare, dunque, significa sempre saper amarsi e volersi bene.
Fonte: L’amore non è mai per casi di Saverio Tomasella ediz.Feltrinelli