Robert Kennedy e la sfida ai poteri forti

Robert Francis Kennedy nasce a Brooklyn il 20 novembre del 1925; settimo di nove figli, si laurea all’universita’ di Harvard nel ’48 e tre anni dopo sposa Ethel Shackel, dalla quale avra’ ben 11 figli.
Dopo il suo matrimonio, decide di fare il manager per la campagna elettorale di suo fratello John, in corsa per la Casa Bianca. Robert si getta a capofitto nell’impresa a tal punto da lavorare perfino 18 ore al giorno, trascurando i suoi affetti familiari. Ma gli ideali di Robert, a quel tempo, sono gia’ molto elevati, e l’idea di lavorare per la creazione di un’autentica comunita’ – il suo pallino in realta’, tanto e’ vero che lo ripetera’ in tutti i suoi discorsi pubblici – restera’ il suo obiettivo piu’ importante, dato che a suo avviso l’America sta sprofondando in un modello di cultura individualistico e fallimentare.


Negli anni della presidenza di John, Robert e’ il suo braccio destro nonche’ il suo piu’ intimo consigliere, e ricopre uno degli incarichi piu’ importanti del governo federale, ovvero quello di ministro della Giustizia.
A trentacinque anni, Robert Francis Kennedy e’ il terzo piu’ giovane ministro della Giustizia dopo Caesar Augustus Rodney (nominato da Thomas Jefferson) e Richard Rush, attorney general della presidenza di James Madison.
Robert, grazie alla collaborazione di alcuni pentiti di mafia, inizia una dura lotta alla criminalita’, dirige una commissione sulle cause del fallimento dello sbarco a Cuba nella Baia dei Porci, e segue da vicino tutte le numerose questioni internazionali. Nel 1962, e’ decisivo il suo contributo per evitare che Washington bombardasse Cuba per l’installazione dei famigerati missili sovietici.
La morte del fratello John resta uno dei momenti piu’ travagliati per la vita di Robert, questo perche’ non solo non crede alla solita storia dell’attentatore solitario (si chiedeva infatti se dietro ci fosse la CIA o la criminalita’ che lui stesso aveva affrontato a muso duro) ma perche’, per via del suo temperamento “sanguigno”, si e’ messo contro molti apparati dello stato, e quindi si sente in colpa per quanto accaduto.
A questo punto Robert lascia l’esecutivo (siamo nel 1963) ma un anno dopo decide di candidarsi come senatore, cominciando a stabilire un rapporto straordinario con i giovani, i poveri e i neri, proprio per via della sua profonda umanita’ finora solo sopita.
Nel 1967 pubblica il libro “To Seek a Never World”, una sorta di manifesto politico (che faceva da preludio alla sua candidatura presidenziale che sara’ ufficializzata nel ’68) dove vengono analizzati a fondo i problemi dellAmerica e del mondo intero: nel libro, infatti, non solo denuncia la “velleita’ ingorda” del governo e dei sindacati, ma punta i riflettori su una societa’ stanca e sempre piu’ ammalata, dove il sistema educativo produce una “standardizzazione dei cervelli” e la burocrazia ipertrofica fa perdere il contatto tra cittadini e istituzioni. “Gli individui” – afferma Robert Kennedy – “hanno perso il contatto con le istituzioni e perfino l’uno con l’altro.” L’unica soluzione, quindi, e’ “la restaurazione di un nuovo senso di comunita’ “, cosa che faccia allontanare dalle persone “la terrificante visione di essere delle unita’ facilmente intercambiabili.”
Quando nel ’68 decide di concorrere alle presidenziali, due sono le questioni sociali piu’ urgenti: la prima e’ la guerra in Vietnam, che si era gia’ trasformata in una catastrofe umana e finanziaria, mentre la seconda e’ la rivolta dei neri in varie citta’ americane, che chiedono il riconoscimento dei piu’ comuni diritti civili.
Robert Kennedy affronta entrambe le questioni di petto: nel famoso discorso all’universita’ del Kansas il 18 marzo del 1968, non solo denuncia le condizioni miserabili dei ghetti neri dove risuonano ancora le stanche promesse di uguaglianza e giustizia, ma menziona anche le condizioni – e i suicidi giornalieri – dei nativi americani, i quali, costretti a vivere nelle loro disadorne riserve e senza un lavoro e uno scopo, finiscono per sentirsi vuoti e morti dentro. Quanto al Vietnam, in quel famoso discorso, Robert ribadisce piu’ volte che “si deve andare al tavolo dei negoziati, perche’ vi e’ la possibilita’ concreta di ottenere negoziati significativi.”
Ma la parte piu’ bella e umana di quel discorso – come molti sanno – resta il famosissimo passaggio sul PIL, ovvero il fatto che “Il PIL ha superato gli 800 miliardi di dollari l’anno, ma questo – se intendiamo giudicare gli Stati Uniti su questa base – non comprende l’inquinamento dell’aria, la pubblicita’ delle sigarette e le ambulanze per liberare le autostrade dalle carneficine. Mette nel conto le serrature speciali per le nostre porte e le carceri per le persone che le forzano. Include la distruzione delle sequoie e la perdita, nell’espansione caotica, delle nostre meraviglie naturali. Comprende il Napalm, le testate nucleari e le autoblindo della polizia per reprimere le rivolte nelle nostre citta’. Il PIL invece non calcola la salute dei nostri figli, ne’ la qualita’ della loro istruzione o la gioia nel loro giocare. Non include la bellezza della nostra poesia ne’ la forza dei nostri matrimoni, l’intelligenza del nostro dibattito pubblico e l’integrita’ dei nostri pubblici funzionari. Non misura ne’ la nostra arguzia, ne’ il nostro coraggio, ne’ la nostra saggezza e apprendimento; ne’ la compassione ne’ il grado di devozione per il nostro paese. In breve, misura qualsiasi cosa, eccetto cio’ che rende la vita degna di essere vissuta.”
Robert Kennedy sarebbe stato di sicuro un grande presidente per gli Stati uniti, proprio come suo fratello John.
Purtroppo, il 4 giugno del 1968, dopo un discorso a Los Angeles, la sua vita viene interrotta da un altro terrorista solitario in preda a un raptus di follia.
Quello che lascia Robert Kennedy e’ una splendida e autentica dedizione alla vita e all’amore per il prossimo. Le sue idee sul senso di comunita’, infatti, sono terribilmente attuali, e sono la causa principale – se ci pensiamo bene – di tutti i nostri mali.
La lezione che insegna Robert Kennedy, in fondo, e’ sempre la stessa: se non provi ad amare gli altri, come puoi dire di amare realmente te stesso?

Tratto dal libro “Sogno cose che non sono state mai” di Robert F. Kennedy Ediz. Einaudi.